La LILA Catania, coerentemente con quanto decretato dal governo, ha bloccato tutte le attività di volontariato aperte alla popolazione. Nell’ottica, con questa scelta, di contribuire a fermare la diffusione del Covid-19.
E’, però, importante ragionare sull’emergenza che si è determinata in Italia, tanto da farne una grande, unica, “zona rossa”.
I “numeri” che conosciamo, pur nella loro drammaticità, non devono farci dimenticare altre epidemie, per esempio le influenze stagionali, che hanno determinato negli anni passati migliaia e migliaia di decessi. La novità del Covid-19, sicuramente capace di una diffusione veloce, sta, però, nel fatto che se l’epidemia procede con i ritmi attuali, la sanità pubblica italiana (l’unica in prima fila, visto che quella privata è sostanzialmente assente, essendo peraltro abituata a usare per le emergenze le strutture pubbliche), in particolare i centri di terapia intensiva, rischia il collasso. Con conseguenti danni irreparabili sia per quanti sono colpiti dal virus, sia per tutti gli altri pazienti.
La domanda diventa, quindi, perché in tutti questi anni è stato impoverito/ridimensionato il servizio pubblico, riducendo progressivamente le risorse investite. Non è difficile capire che tali scelte rendono più difficile la gestione di situazioni particolari, epidemie, terremoti, guerre, migrazioni. Perché ancora oggi, con il processo di regionalizzazione, se ne vuole rimettere in discussione il carattere nazionale? Perché non si comprende che la spesa per macchinari per il supporto respiratorio ed intensivo in generale si fa una volta, ma arricchisce le capacità di supporto nelle necessità?
Perché non si comprende che se si procede alimentando stigmi e paure, come nel passato è avvenuto per l’infezione da HIV, diventiamo tutti meno sicuri? Che se fino a ieri si è fatto poco e nulla per sviluppare politiche di solidarietà, accoglienza e condivisione è più difficile, oggi, appellarsi al senso civico.
Ma è anche è importante interrogarsi sul comportamento non del tutto coerente di governo e regioni. Prima dell’ultimo decreto, nonostante la chiusura delle scuole e delle università, erano rimaste aperte (tranne in Lombardia e in alcune province) tutte le altre attività ludico-relazionali. Questa contraddizione ha prodotto ciò che ex post è stato evidente a tutti: l’esplosione della cosiddetta movida, con i rischi conseguenti. Non era difficile ipotizzare che i ragazzi, avendo minori impegni e più tempo libero, avrebbero ampliato le loro occasioni di contatto.
Non dobbiamo, infine, rimanere indifferenti rispetto a ciò che sta accadendo nelle carceri, da sempre sovraffollate e che non garantiscono sicurezza e incolumità per i detenuti. Essere “ristretti” non significa non avere diritti.
In conclusione, diamo tutto il nostro contributo per fermare la diffusione dell’epidemia perché vogliamo un futuro migliore per tutti, ma senza rinunciare a ragionare. Soprattutto, perché riteniamo fondamentale evitare che, come avvenuto in casi precedenti (dagli allarmi HIV, alla Sars, alla influenza H1N1), finita l’emergenza non cambi nulla.